Il romanzo della bistecca
 
 
 
Il romanzo della bistecca 
 
 
 
 
         
 
Il romanzo della bistecca ci porta negli Stati Uniti  
Sì, parliamo della bistecca, il monumento della cucina fiorentina.  
L’Artusi v’insegna l’abbiccì di questo piatto ineguagliabile per la sua semplicità e la sua possente gradazione nutritiva: “Da beef-steak parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella”. E spiega: “I macellari di Firenze chiamano vitella il sopranno non che le altre bestie bovine di due anni all’incirca; ma se potessero parlare, molte di esse vi direbbero non soltanto che non sono più fanciulle, ma che hanno avuto marito e qualche figliolo”.  
 
Altri tempi i suoi 
Erano quelli di Gino Sabatini in via Valfonda o della trattoria di Gaetano Picciòlo sul viale Regina Margherita dove D’Annunzio andava a farsi una bistecca di un chilo con la “divina” Eleonora Duse, o dei locali di Giovacchino Mariottini in via Tosinghi, di Vincenzo Del Lungo in Borgo San Lorenzo, della “Buca del Lap” e della “Buca di San Giovanni”.  
Oggi i vitelli d’allevamento non hanno certo il modo di invecchiare.  
E per concludere con l’abbiccì sulla bistecca: una storiella fa risalire al Cinquecento la nascita del suo nome. Festa in San Lorenzo, bue allo spiedo, distribuzione di carne al popolo, nella ressa ci sono dei mercanti inglesi che allo spettacolo del taglio delle fette di carne con l’osso si entusiasmano e le chiedono gridando: “Beef-steak, please! Beef-steak! Thank you!”. Da qui la traduzione simultanea di “bistecca” da parte dei fiorentini. È un’abitudine dei toscani italianizzare le parole straniere raddoppiando le consonanti finali e aggiungendo una vocale a chiusura: tramme per tram, autobusse per autobus, Buicche per Buick, Lucchestricche per Lucky Strike, cognacche per cognac eccetera. Prima di allora le bistecche avevano un nome più logico: carbonate. Oggi le bestie non solo vivono poco, e finiscono il più presto possibile al macello, ma rispondono di rado alle esigenze della cucina fiorentina.  
L’autentica bistecca, infatti, vuole la carne chianina. E trovare la carne chianina è sempre meno facile. Per molte ragioni che cercherò di spiegarvi.  
Il bue chianino (in Toscana, però, si dice bove. V’immaginate il Carducci che canta “T’amo oh pio bue”) è la fabbrica delle bistecche vere, le cosiddette “fiorentine” che, perduto il filetto, i milanesi chiamano costate. Per loro la bistecca è la fettina alta due millimetri.  
 
 
 
         
 
Roba da piangere 
Senza carne chianina la bistecca non ha senso e non ha patria: non ha sapori. Il bove chianino ha la carne succosa. Masticandola senti la polpa compatta e vellutata che cede sotto i denti senza opporre resistenze biliose, come succede con la carne di certe bestie che arrivano da lontano: ma senza nemmeno abbandonarsi molle e insipida, quasi puttanesca. Paragonata a una donna (il rapporto gastronomia-sesso è molto stretto) la Chianina ricorda l’amore intenso di una femmina di gran carattere, sostanziosa e con attributi aggressivi, fianchi da serrare con le mani che non lasciano la stretta e occhi da sprofondarci.  
Una donna tutte curve ma senza un filo di grasso più del necessario.  
La Chianina ha solo il grasso indispensabile alla mole del bove da cui nasce. È una carne moderna, il suo scarto è minimo. Il bove chianino è il più alto e il più maestoso del mondo. È quello che in proporzione al suo peso rende di più.  
Mario Sanesi, che a Lastra a Signa ha una trattoria storica, un’ex posta di cavalli che talvolta ammannisce ancora le bistecche chianine, racconta:  
“È da un secolo che la mia famiglia cucina bistecche chianine in questo locale. Ma ora per trovare un vitello chianino bisogna girare come matti. E quando lo trovi devi pagarlo l’iradiddio”.  
Che magnificenza quando a Lastra a Signa giungevano i contadini per la sfilata dei bovi chianini, tutti infiocchettati, bianchi come la porcellana, e robusti, di chiappe alte. Al più bello andava un premio. “Allora i vitelli, a peso morto, erano sui settecento chili” dice il Sanesi.  
“Oggi quelli che ci mandano dal Nordeuropa non superano i quattrocentocinquecento chili, e sembrano tisici. Quando devo mettere in tavola una fiorentina tagliata da un vitello straniero mi vergogno come un ladro”. Rispondendo a un’inchiesta del “Giorno”, nel 1981, il veterinario di Lastra a Signa dichiarava: La Chianina è la più bella razza mai esistita, la migliore come rendimento e bellezza fisica.  
 
Ma è in estinzione 
Ogni altra vacca messa accanto alla chianina fa la figura della derelitta. L’hanno ammazzata con la politica. Hanno preferito l’operaio al contadino, tutto qui. Hanno scoraggiato in ogni modo il mestiere del contadino, non aiutandolo in nulla. Lo hanno costretto ad andare nelle officine, se voleva mangiare tutti i giorni, mattina e sera. Ai tempi della seconda guerra mondiale c’erano tedeschi. Le stalle erano vuote. Ma due anni dopo c’erano di nuovo settemila capi. Oggi, se faccio un conto generoso, in tutta la zona non ci sono più di centocinquanta-duecento capi, e di questi pochissimi di razza chianina. Il motivo? Se si compra un capo straniero arrivano i contributi, pochi ma arrivano. Se nella stalla nasce un vitello chianino, il governo passa qualche volta trentacinque euro, dopo molti controlli, ma non subito. Per averli, quei soldi, bisogna aspettare tre anni. Allora si preferisce comprare il vitello vivo. E conclude: I contadini toscani erano pervenuti a selezionare con una pazienza impressionante e un’arte incredibile, una razza che non ha uguali nel mondo. Esempio: castravano il vitello. Quelle bistecche che il Sanesi sogna di notte, le migliori in assoluto, vengono dai vitelli castrati. In pratica erano dei capponi e lo sappiamo tutti che la carne dei capponi è più buona di quella dei polli.  
 
 
 
         
 
È l’inizio di un’analisi 
Il titolo è pronto: Perché l’Italia della politica ha ucciso la razza Chianina.  
Nel Casentino trovai un caso che illustra da solo, con la violenza del paradosso, il dramma dell’agricoltura italiana. Fattoria di Bucena, quattrocento ettari di cui cento boschivi, terreno subappenninico, antico feudo dell’ospedale fiorentino di Santa Maria Novella, ci sono ancora gli stemmi. L’ultimo proprietario attivo è stato il liberale Giuseppe Sanarelli, uno dei quarantasei senatori che nel 1928 votarono contro Mussolini. Con Sanarelli la fattoria visse un periodo di splendore: dieci case coloniche, duecento persone, scuola, parrocchia, cimitero. Una vera comunità. Gli eredi si disinteressano alla terra. Nel dopoguerra le colture declinano, i contadini scendono al piano, le case cadono a pezzi, quella padronale, quattrocentesca, resiste fin quando è abitata dal fattore.  
Ultimo, rimane il parroco, perché continua a ricevere il salario, ma non ha più anime da curare.  
Allorché il fenomeno italiano della corsa alla città comincia a rivelarsi un suicidio ecologico, alla Bucena salgono i Crisafulli. Sono romani, ma il capofamiglia, l’avvocato Anselmo, è siciliano. Si è rivelato con il processo Giuliano, ha il carattere del pioniere. Prende la Bucena in usufrutto, stipulando un compromesso di vendita con gli altri eredi Sanarelli. Ha un progetto: allevare il bestiame in libertà. Sa che il bue chianino è più resistente del Charolais, dell’Aberdeen, del Limousin e dello Shorthorn, le razze dominanti sui mercati mondiali, che dà più carne di qualsiasi altro, che la sua carne è la più adatta ai consumi moderni, perché è la meno grassa, che è l’unico in grado di vivere sui terreni impervi e di nutrirsi senza mangimi di importazione, divorando ogni tipo di foraggio, il più vile, anche quello ispido delle zone incolte, e che ha una resa in carne per unità di foraggio superiore a tutti, che è il più coriaceo al freddo e al caldo, che la fecondità della femmina si aggira sull’85 per cento e supera il 90 negli allevamenti bradi, che la sua testa piccola rende meno pericoloso il parto.  
L’impresa entusiasma Anselmo Crisafulli. La moglie lo segue insieme ai due figli.  
 
Rendono abitabile la casa quattrocentesca e acquistano venticinque capi dalla marchesa Marinelli di Frassineto, Fonte a Ronco, provincia di Arezzo, capi dal sangue chianino purissimo. È il primo insediamento in quest’area deserta. Li guardano come marziani. Dall’amministrazione democristiana non ricevono alcun aiuto. Ma tengono duro. Vanno alla fiera di Verona con undici capi, ammiratissimi, e li vendono a un allevatore brasiliano. Gliene rimangono quattordici. E con questi portano avanti l’esperimento. “Dopo qualche anno” dice Anselmo Crisafulli “l’esperimento è riuscito. Ho avuto risultati splendidi. La mandria ha novantadue capi con cinquantadue fattrici gravide che in breve ci porteranno sulle centoquaranta unità”. E spiega: Oltretutto la Bucena produce in stretta economia cinquemila quintali di foraggio che bastano a mantenere le bestie. Siamo al ciclo completo vacca-vitello-foraggi. Potrei impostare un’azienda zootecnica fondata su duecentocinquanta capi, ottimale per gli ettari che abbiamo. Potrei: ma le difficoltà sono enormi. Con i mezzi ridotti al minimo, poche macchine, poco personale, ho dimostrato che l’Italia ha la razza bovina capace di tirarci fuori dalla crisi zootecnica che strangola la nostra economia. Sui terreni collinari e di mezza montagna disertati dall’agricoltura potremmo allevare tante di quelle mandrie da non avere più bisogno di importare carne.  
 
Anzi, avremmo la possibilità di esportarla 
Non solo: con la Chianina ci libereremmo della dipendenza dal mercato USA dei mangimi. Gli ostacoli incontrati dai Crisafulli chiariscono una situazione che pone in luce grottesca i bei discorsi ascoltati al Parlamento, alle Regioni, nelle tavole rotonde organizzate dai partiti. Cominciano dal proprietario assenteista. Non si è mai occupato della fattoria, ha lasciato che spogliassero perfino il cimitero, ma quando Crisafulli ottiene il disco verde dalla CEE per il progetto di restauro con il finanziamento di centosettanta milioni, lui non dà l’approvazione, che è indispensabile, e il progetto si arena, i milioni non arrivano e gli affittuari restaurano l’indispensabile. Le difficoltà si moltiplicano. Passa altro tempo. Crisafulli mi chiama, per sfogarsi. L’amministrazione comunale è cambiata.  
Il sindaco è di sinistra e ci considera dei padroni nel senso più deteriore della parola. Ci considera degli agrari, dei piccoli Torlonia. La fattoria non è nostra, il padrone vero ci ha impedito di godere i benefici della legge, la Regione raccomanda di utilizzare per gli allevamenti i terreni abbandonati, e noi che abbiamo fondato un allevamento serio siamo bersagliati dalle autorità che avrebbero il dovere e l’interesse di sostenerci. La Bucena era destinata a diventare la pattumiera del circondario, uno scarico di rifiuti, ma ora che, per merito nostro, hanno scoperto la sua vocazione, mirano a sfrattarci per trasformarla in una cooperativa.  
 
 
 
         
 
Si può essere tanto arretrati da voler uccidere l’iniziativa privata quando funziona? 
I tori, che sono chianini purissimi, ce li vorrebbero pagare a prezzo di macelleria, e i vitelli a prezzo di carne congelata. Ma si può? Il colmo è questo: siamo nel regno della razza Chianina, Firenze, il paradiso della bistecca, è a due ore di macchina, e nessuno mangia la carne chianina. Alla lunga i Crisafulli si sono arresi. Stanchi di dover vendere sotto costo i loro capi di eccezionale qualità, li hanno messi all’asta. Erano centoquaranta, l’esperimento poteva considerarsi riuscito in pieno, ma la Toscana aveva dimostrato, una volta di più, di aver perduto molta della sua intelligenza e della sua civiltà. Aveva ragione Mino Maccari, piccolo di statura ma grande di ingegno, quando scriveva: “Sei toscano? E allora sei un bischero”.  
Alla base della nostra decadenza zootecnica, che in pratica ha cancellato la razza Chianina dalla geografia gastronomica tricolore, c’è un fatto politico e una catena di torbide speculazioni.  
L’Unione Europea ha permesso l’affermazione dell’agricoltura francese e tedesca a danno soprattutto di quella italiana.  
 
 
 
         
 
Ecco il fatto politico 
Ma si deve distinguere tra gli interessi nazionali e quelli dei baroni della carne, degli importatori, degli ingrassatori, degli industriali della macellazione e della refrigerazione, degli imprenditori zootecnici, degli industriali metalmeccanici e dei partiti. Eccoci alla speculazione. Il mercato internazionale della carne ha creato un giro di affari che in Italia ha messo a terra la zootecnia arricchendo numerose categorie.  
 
L’industria metalmeccanica ha potuto esportare macchine, motori e impianti nell’Est, almeno per vent’anni, solo perché in cambio il nostro Paese ha accettato di importare bestiame. E i grandi importatori di carne dall’Est hanno sostenuto, per amore o per forza, determinati partiti.  
Mentre altri partiti hanno favorito, per cause politiche, la dipendenza della nostra zootecnia dall’industria USA dei mangimi. C’è una sola razza bovina, in Europa e nelle Americhe, capace di sottrarsi alla dittatura dei mangimi e di trasformare qualsiasi tipo di erba in carne: la Chianina e i suoi incroci. È per tale ragione che i più potenti allevatori dell’America Latina, fin dagli anni Sessanta, hanno puntato sui riproduttori chianini per creare allevamenti in grado di non subire le sopraffazioni USA. Sissignori, il bove chianino, negletto nella sua Toscana, ha conquistato l’America, è diventato il re degli allevamenti prima del Sudamerica e poi del Nordamerica. I brasiliani, ad esempio, con Gianandrea Matarazzo in testa, hanno puntato sulla Chianina: non solo perché i bovi chianini hanno le caratteristiche che ho già esposto, ma anche perché nell’incrocio potenziano sempre l’altra razza. Perché la loro alta statura gli consente di pascolare nella prateria senza ferirsi al basso ventre. Perché, a differenza delle razze francesi e inglesi che dominano gli allevamenti sudamericani, amano lo stato brado. Perché riescono a vivere sui terreni impervi dove i Charolais non saprebbero nemmeno camminare. E perché divorano ogni tipo di foraggio, il più vile, che le altre razze rifiutano, o che cresce in zone dove esse non riuscirebbero a campare.  
 
Dal Sudamerica il trionfo della razza Chianina è dilagato nell’America del Nord. In una corrispondenza dagli Stati Uniti, ho letto: “Le succose, sanguinolente, di grandezza mostruosa, bistecche del Texas, ma anche quelle dell’Oklahoma, hanno un padre molto spesso italiano, per la precisione chianino. I tori chiamati chianini stanno fecondando le praterie americane, stanno vincendo i concorsi di bellezza, di potenza virile, di resistenza, stanno sbaragliando i tori svizzeri e jugoslavi delle razze Simmenthal, i Black Angus americani, gli Zebù arrivati dall’India, i maestosi tori francesi e inglesi. I tori chianini sono il futuro carnivoro del mondo: così pensano gli americani”. I nordamericani hanno cominciato ad allevare la razza Chianina per ragioni diverse da quelle dei sudamericani. Non tanto, cioè, perché i vitelli chianini fanno a meno dei costosi foraggi e trasformano in carne il verde delle praterie, ma soprattutto perché danno delle bistecche superiori a quelle di ogni altra razza.  
 
E siccome gli americani a stelle e strisce amano le bistecche più dei fiorentini, hanno deciso di dare la nazionalità statunitense ai più agguerriti riproduttori chianini.  
 
Dopo aver ricevuto tanti milioni di emigranti italiani di Napoli e di Palermo” disse il presidente Johnson “è giunta l’ora di spalancare le porte del nostro Paese anche ai buoi di una regione italiana che di emigranti ce ne ha dati sempre pochi, la Toscana.”  
E per essere sicuri di non importare esemplari di serie B, li ha fatti acclimatare nel Canada. A parte il fatto che di emigranti lucchesi e lunigianesi negli Stati Uniti ce ne sono a bizzeffe, e che fino a prova contraria la Lucchesia e la Lunigiana sono in Toscana, dobbiamo prendere nota che oggi, negli USA, un buon riproduttore chianino costa somme da capogiro. E gli allevatori si dividono le sue prestazioni unendosi in robusti pool. Anche il presidente Johnson divenne socio di uno di questi pool. E una volta caricò sull’aereo della Casa Bianca i giornalisti accreditati alle sue conferenze stampa per trasportarli nel Texas, riceverli nel suo ranch e stupirli mostrando loro il gigantesco toro chianino di diciotto quintali in missione fra le sue fattrici. Johnson programmò il viaggio in modo di arrivare nel ranch all’ora della pipì. La pipì del toro. Gli esperti assicurano che la virilità, e la forza riproduttrice di un toro, si misura dalla lunghezza della sua operazione pipì.  
 
Sarà 
Comunque non ci riguarda da vicino. Riguarda piuttosto la buonanima di Johnson e i cronisti politici del suo seguito. Lo spettacolo andò in scena con puntualità. Johnson impose il silenzio e cronometrò la prorompente cascata. Poi ai rappresentanti della stampa, rimasti letteralmente sbalorditi davanti al colosso impegnato nella teatrale bisogna, rivolse la seguente reprimenda: “Siete delle maledette teste d’uovo e non capite un accidente di queste cose. Ma sappiate che gl’italiani mangiatori di spaghetti hanno la migliore carne del mondo e da questo toro italiano avremo delle bistecche favolose. Spero che quelle, almeno, saprete apprezzarle”.  
 
 
 
         
 
Johnson si sbagliava 
Gli italiani non hanno la migliore carne del mondo: l’avevano.  
E la cucina toscana ha compromesso il piatto più importante, e più rappresentativo del suo menu. Quanti sono i ristoranti o le trattorie toscani che possono vantarsi di servire regolarmente bistecche chianine ai loro clienti? Si contano sulle dita di una mano. Negli anni Ottanta la razza Chianina fece breccia anche nell’impero sovietico. Il primo drappello di bestie partito da Siena per l’URSS comprendeva centoquaranta femmine e ventotto tori acquistati per sperimentare nuovi incroci. Così dopo l’Ovest, la Chianina andò alla conquista anche dell’Est.  
E probabilmente, oggi, le bistecche chianine arricchiscono il menu dei ristoranti di lusso di Mosca dove si paga in dollari.  
Noi italiani, invece, malgrado i proclami dei benemeriti allevatori che tra mille difficoltà continuano a produrre i vitelli di questa razza monumentale, stiamo perdendo la memoria della virile morbidezza della sua carne. Al punto che persino i suoi nostalgici paladini non sanno più riconoscere a colpo d’occhio l’architettura della razza Chianina.  
 
Ne volete un esempio?  
L’Accademia Italiana della Cucina, alla fine del 1991, ha messo in distribuzione un quaderno con gli “Atti della tavola rotonda tenuta ad Arezzo il 14 ottobre 1990”. E sulla copertina ha pubblicato la riproduzione a colori di un famoso dipinto di Giovanni Fattori dove, contro uno sfondo marino, tirano il carro due bovi con una grande testa e delle grandi corna a manubrio.  
 
Mentre non è un mistero che i bovi chianini hanno piccola la testa e piccole le corna.  
Il Fattori, in realtà, dipingeva i bovi maremmani, non i chianini. Tanto è vero che quel medesimo dipinto fattoriano aveva dato sapore alla copertina del mio libro La cucina maremmana. Vedete com’è difficile trovare una bistecca autentica! Nemmeno ad Arezzo, culla della razza Chianina in condominio con Siena, riescono a distinguere un bove chianino da uno maremmano: e tanto meno a Milano, sede dell’Accademia Italiana della Cucina, la metropoli dove la cucina toscana si è imposta con le bistecche chianine. Oggi i macellai milanesi rifiutano persino di venderla, la carne chianina. Parlo dei milanesi perché la testimonianza l’ho raccolta a Milano, ma il fenomeno coinvolge certamente i macellai di altre città.  
Più che una testimonianza, è una denuncia.  
A Borghetto Lodigiano c’è un allevatore che tira su vitelli di numerose razze, le più richieste dal mercato, un allevatore che non guarda solo al profitto, che non ingrassa e basta ma alleva anche sul serio, che ama produrre della buona carne, meglio se ottima, e che ha finito per innamorarsi della razza Chianina. Bene, questo campione di Borghetto Lodigiano confessa di non riuscire a vendere i suoi vitelli chianini: I macellai li rifiutano, a Milano, perché hanno l’ossatura troppo pesante, e questo riduce i loro guadagni, perché le loro bistecche sono troppo grandi e la clientela inesperta non le vuole. Che poi la carne chianina sia fenomenale e del tutto sana non gliene importa niente, ai macellai. Loro preferiscono vendere la carne dei vitelli ingrassati che di norma è imbottita di estrogeni e di antibiotici, di sali di piombo, di tossine. I mangimi non fanno mica bene. E spesso arrivano guasti, dall’America. Solo i vitelli chianini sanno fare a meno dei mangimi. Ai macellai non interessa vendere della buona carne. Interessa esclusivamente vendere della carne che gli permetta di guadagnare molto.  
“Ma sui vitelli gonfiati non c’è stato uno scandalo fragoroso?” chiedo.  
“Con tuoni e fulmini sugli allevatori, sui veterinari e sui macellai disonesti?”. “Sì, c’è stato, ma in Italia gli scandali si dimenticano presto”. 
 
 
 
         
 
Bistecca del Troia  
E ora mettiamola in tavola, la bistecca.  
Che sia alta non un dito o un dito e mezzo secondo quanto dice l’Artusi, ma due e mezzo. E che esca dal piatto. Polpa al sangue, compatta, da uomini veri, con i denti aguzzi. Coltello arrotato bene, pepe e sale ma non troppo, limone niente per carità.  
E un cantuccio di pane.  
 
Carne da ganasce solide, il dente ci fa presa con gusto primitivo. E dopo che il dente ha azzannato e strappato, la ganascia ci affonda, e palpa, stringe beata, macina la carne distillandone, quasi, gli umori e i sapori nativi, ancestrali.  
Morsi lenti e bocconi radi.  
Si deve masticare piano, concentrandosi.  
Mangiate da soli, se non avete la palla al piede della malinconia.  
Le chiacchiere distraggono.  
La bistecca vuole un colloquio a due, tu e lei. Una bistecca come la intendo io è un ritorno alle sorgenti della vita, al buonsenso: camminare, crescere in pace, non ingannarci, fare l’amore come Dio comanda, senza preziosismi alessandrini, non arrampicarsi sugli specchi, mangiare da forti. La bistecca riassume tutti i pregi della cucina. Quando sentite cianciare che la cucina italiana, e in particolare la fiorentina, non ha fantasia, rispondete che è gloriosamente umile, l’aurea umiltà di chi sa, e dedica al mangiare il tempo giusto, di chi non esagera, dell’uomo con la testa sulle spalle.  
Del resto Flammarion, nel proemio della sua opera L’arte culinaria francese, ne riconosce le glorie:  
“Nous devons reconnaître que les cuisiniers italiens qui vinrent en France à la suite de Catherine de Medicis, lors de son mariage avec Henri II, furent à l’origine de la cuisine française par les élements et assaisonnements nouveaux pour nous qu’ils y apportèrent, et dont nos chefs de l’epoque s’inspirèrent si bien qu’ils ne tardhèrent pas à surclasser leurs initiateurs”.  
 
Lasciamo stare il surclasser. De Gaulle è bene un francese purosangue, ma questo è un diploma dove si legge che la cucina francese, la più famosa del mondo, e la più elaborata aggiungo, deve molto alla cucina italiana. E poi quel surclasser è rivelatore. I francesi non hanno avuto l’equilibrio per rimanere semplici. Sono esplosi. Hanno inventato, elaborato, ricamato.  
Tu gli mandi Giotto e loro furoreggiano con Fragonard.  
La bistecca è il Giotto della buona tavola. Voi tenetevi pure i Tiepolo, i Caravaggio, o i Picasso.  
Io amo Picasso, i Rubens della cucina bolognese titillano il mio erotismo in forchetta e coltello, mi inchino davanti ai Fontanesi della cucina torinese e agli Scipione della cucina romana (eppure l’accostamento è meno arbitrario di quanto temevo!), però Giotto mi convince.  
Mi emoziona.  
E dove andiamo a mangiarla, la bistecca?  
Io consiglio la trattoria “Sostanza”, quella del Troia, in via delle Porcellane, a due passi da Santa Maria Novella.  
Un corridoio con cinque o sei tavolini che rammenta il “Cesaretto” in via della Croce a Roma: panche di legno, si siede tutti insieme, il gomito del vicino ficcato nelle tue doghe, all’ingresso c’è il banco della mescita, con le cartoline dei clienti amici, Chagall, Annigoni, Stravinskij, Steinbeck, De Sica, Bartali, Anita Ekberg …  
 
Il Troia si chiamava Guido Campolmi. Furono i corniciai di via delle Porcellane, i fiaccherai, i renaioli, i suoi primi avventori a soprannominarlo così, con umorismo feroce. Colpa del grembiule su cui strusciava le mani dopo aver sbuzzato i polli del Valdarno e messo i tizzi di carbone nel fornello, dopo aver tagliato le bistecche chianine.  
Il nomignolo rimase ai figli Giorgio e Mario dopo che lui, Guido, morì nel 1944, troncato da una bomba a mano. Io ho conosciuto la bistecca del Troia al tempo di Giorgio Campolmi, alto e magro, con i baffetti: tutto il contrario del padre, un orco con la testa rapata, con le mossacce ringhiose. Dal Troia non si sbagliava mai. Carne chianina. Carne rosa.  
“Diffidate della carne cupa, è delle bestie vecchie e da lavoro” diceva.  
 
Carne rosa, dunque, e frollata a perfezione.  
Mi spiego: frollata nel suo quarto, sennò inaridisce. Cinque, sei giorni di ghiacciaia, meglio sette. E che non abbia filamenti. E tagliata con maestria, che la costata venga fuori dal quarto tutta intera, filetto e controfiletto. E che sia almeno di quattro etti: ma l’ideale è di sei/otto.  
Ora ci vuole fuoco di brace di legna.  
E una gratella.  
La bistecca non va lavata né salata.  
Olio niente.  
Quando si gira, un pizzico di sale grosso e pepe.  
 
I Campolmi la giravano con le mani e vi permettevano di assistere al rito, nel loro cucinino.  
Il profumo acre inebriava.  
A me saltava la voglia di sostituire il cuoco, e di girare la carne per il piacere di leccarmi le dita. Te lo lasciavano fare una volta. E appena ti eri bruciato riprendevano il mestolo. Aspettiamola al banco, la bistecca, con un litro di Chianti nato a Castellina. È di 8 etti, che credete?  
 
Se non bevo strozzo.  
“Toda por usted?” sbalordisce un pittore spagnolo davanti a me.  
“Toda, seguro! L’altro giorno, all’Ardenza, mi sono messo all’anima un’orata di mezzo chilo, si figuri un po’!”.  
E tagliato il primo boccone, ci affondo i denti, apro il colloquio tra me e lei: noi due soli.  
I ghiottoni capiscono. La Val di Chiana, afosa e verde, comincia a irrorarmi con i suoi umori l’imbuto della gola.  
 
E oggi?  
Be’, anche oggi, dal Troia, si può avere la fortuna di assaporare una bistecca chianina.  
 
Buon appetito 
 
 
 
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