Elsa
11 Gennaio 2017
Quando Elsa Stalinich entrò nella stanza numero undici dell’hotel Thurn und Taxis, il suo amante la stava già aspettando, nudo, a letto. La luce del sole si insinuava tra gli edifici rossicci della Piazza del Mercato di Bayreuth, filtrava tra le tende, attraversava il tappeto e lambiva le lenzuola, in un fascio preciso, una secante perfetta. 
Elsa registrò la scena con assoluta indifferenza. 
“Sei in ritardo” fece notare lui. 
Elsa non rispose. Si spogliò come un automa. La camicetta cadde a terra, poi la gonna. Si liberò della biancheria intima e volse lo sguardo, trattenendo il rancore, verso quell’uomo che la attraeva in maniera oscura e inspiegabile. Passò in rassegna la stanza: riconobbe la macchia azzurra vicino all’armadio, la lunga crepa nella parete, la bruciatura della lampada a gas. E pensò che l’abitudine non è né una sensazione né un sentimento, ma qualcosa di fisico. 
Elsa sapeva che nei suoi confronti lui provava solo desiderio di possesso, di sottomissione. Questa consapevolezza la metteva a disagio. Eppure non poteva fare nulla per evitare l’appuntamento settimanale all’hotel Thurn und Taxis. Ci aveva provato molte volte. Ripensò al giorno in cui aveva ordinato alla cameriera di chiuderla a chiave nella sua stanza. 
“Non aprire. Nemmeno se dovessi implorarti di farlo.” 
“Come, Frau Stalinich? Perché mai dovrei chiuderla dentro?” 
Elsa si era legata con le lenzuola alla testiera del letto. Si era ripromessa di rimanere lì fino a quando le campane della cattedrale di Bayreuth non avessero suonato mezzogiorno. Quel giorno non ci sarebbe andata. Ma, passate alcune ore, poco prima delle dodici, come un lupo attratto dalla luna piena, aveva sciolto i candidi nodi, si era rivestita, e, con voce impostata, aveva mentito alla cameriera, chiamandola dalla finestra: “Apri la porta, è tutto a posto”. 
Subito dopo, Elsa era uscita, aveva percorso le vie di Bayreuth come se il diavolo le stesse alle calcagna, era entrata dalla porta sul retro dell’hotel, aveva salito le scale di servizio ed era entrata nella stanza dove il suo amante l’aspettava con impazienza. 
L’aveva conosciuto quello stesso anno: il 1900. Bayreuth aveva dato il benvenuto al nuovo secolo con grandi festeggiamenti. Ogni specie di indovini e ciarlatani aveva previsto la fine del mondo: dicevano che era scritto nelle profezie di Nostradamus, nella Bibbia, nel Corano, che tutti i testi concordavano sulla data. Ma il primo gennaio il Sole, la Luna e tutti gli astri avevano seguito tranquillamente il loro corso. 
Il primo incontro era avvenuto domenica 13 maggio, Elsa non lo avrebbe mai dimenticato. Come spesso accade nelle relazioni più complicate, tutto era cominciato nel modo più semplice. Stava prendendo un tè in una caffetteria vicino alla Antontrasse, il viale intorno al quale si sviluppa la Neustadt. Al suo fianco, un uomo sorseggiava un caffè. 
Elsa aveva percepito come un richiamo. L’aveva guardato. Prima, senza farsi notare. Poi, in modo più aperto. Non ricordava esattamente chi avesse iniziato la conversazione, che fu banale, scontata. Lui non era affatto attraente e per di più aveva l’aria vagamente infastidita. 
 
Lo sconosciuto, da parte sua, si era reso subito conto di aver attratto l’attenzione di Elsa. Il suo interesse era così ostentato che si chiese se volesse giocargli uno scherzo di cattivo gusto, magari estorcergli denaro. Ultimamente, tutte le sue relazioni erano state a pagamento. La sua naturale tendenza alla misoginia si stava accentuando in modo preoccupante. Quella sconosciuta, però, era diversa. Era stata la paura, non il desiderio, a spingerlo ad agire. Aveva sentito freddo prima di aprire bocca, un freddo tagliente come il ghiaccio. Ma l’incantesimo agiva su di lui e su di lei con la stessa irresistibile intensità. Non fu la sua volontà a parlare, ma la sua storia e il suo destino: “Conosce l’hotel Thurn und Taxis? Martedì prossimo, a mezzogiorno e mezza, l’aspetterò nella stanza numero undici”. 
E se ne era andato come se fuggisse. 
Elsa l’aveva guardato sparire tra la gente. Aveva annotato giorno, ora e luogo dell’appuntamento su un pezzo di carta. Che poi aveva strappato, provando repulsione verso sé stessa. Aveva trascorso i giorni successivi nell’inquietudine, abbassando lo sguardo ogni volta che il marito le chiedeva qualcosa, confusa quando era sola. Aveva cercato di dimenticare l’incontro con lo sconosciuto, l’appuntamento; l’intera faccenda era semplicemente assurda, doveva cancellarla dalla mente. Ma il martedì era arrivato puntuale e Elsa, con la testa vuota e il cuore accelerato, come una sonnambula che obbedisce a ordini misteriosi, si era diretta al luogo concordato. 
Avevano fatto l’amore in modo triste e vuoto. 
Il misterioso amante non le aveva chiesto nulla. Non aveva voluto sapere se fosse sposata oppure no, se vivesse a Bayreuth o se fosse di passaggio per un soggiorno alle terme di Heiligenstadt, se appartenesse a una famiglia agiata, se provasse un qualsiasi sentimento nei suoi riguardi o se fosse una specie di ninfomane. 
“Martedì prossimo, stessa ora, stessa stanza” aveva detto, soffocato da un vago senso di colpa, con Elsa tra le lenzuola, respinta anziché amata. 
Si era ripromessa di non tornare. 
Ma era tornata. Ogni martedì. Settimana dopo settimana. 
All’inizio era un mistero. Poi, un’abitudine. Alla fine, una forma di simbiosi. Una simbiosi della quale entrambi ignoravano il perché e sulla cui esatta natura entrambi, separatamente, si interrogavano. 
La risposta era nella pelle dell’amante. I suoi pori contenevano minuscole e invisibili tracce del liquido nero che genera tante passioni. 
Un fluido scuro e denso dal potere illimitato. 
L’inchiostro. 
 
Nacque la scrittrice e morì fra le sue braccia 
 
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